Un Italiano vero
All’inizio dell’attuale campionato di calcio di serie A, un giocatore piuttosto famoso della squadra del Brescia, Mario Balotelli, fornì una prestazione sportiva non proprio da campione. Un commentatore se ne uscì con una frase che fa riflettere noi filosofi che indaghiamo il senso della nostra identità e che cerchiamo il nostro demone: “Non sarà mai completamente italiano”, alludendo al fatto che il ragazzo di colore, adottato in tenera età da una famiglia bresciana (lo si capisce anche dal suo forte accento lombardo!), proprio a causa della sua nascita africana non sarebbe mai potuto essere al 100% italiano.
Certo il giocatore bresciano non brilla per simpatia, equilibrio di carattere e pacatezza ma la domanda che ha intrigato tutti non riguardava il suo carattere ma la sua appartenenza sociale e la sua identità culturale.
Cosa determina questa particolare caratteristica? Cosa ci rende veramente italiani? Lo chiediamo alla “voce più autorevole”, il festival di Sanremo del 1983, quando il cantante Toto Cutugno diede in musica delle precise indicazioni!!!
Saranno la musica, gli spaghetti, la gabbia con il canarino sul davanzale, la religiosità oppure l’eleganza o il calcio a renderci tutti italioti?
Non è facile rispondere a questa domanda. E allora chiediamo soccorso, come farebbe Platone, ad un racconto, un mito si direbbe, un mito americano del XX° secolo, la splendida e celebre auto Ford Gran Torino prodotta dalla casa americana dal 1968 a 1976:
Questo capolavoro dell’ingegneria e del design rappresenta per Walt Kowalski, operaio in pensione proprio della Ford, da poco alle prese con la dura esperienza della vedovanza, la sua eredità. Figli e nipoti ambirebbero al trofeo ma lui non è per nulla convinto di lasciarglielo. C’è molta freddezza nei rapporti familiari di Walt e i suoi consanguinei appaiono come degli estranei.
Chi, invece, lentamente e con parecchi equivoci, diviene lentamente parente dell’ex operaio di origini polacche è la famiglia dei vicini di casa, originari di una tribù indocinese denominata Among, dalla lingua, usanze e abitudini molto diverse da quelle di un americanissimo reduce della guerra di Corea:
La comunicazione interculturale non è facile, anzi, le incomprensioni e i pregiudizi ci sono e il bisogno di mediazioni e traduzione è evidente:
Walt apostrofa il figlio più piccolo della famiglia orientale con lo stesso epiteto con cui chiamava i nemici durante la guerra: “muso giallo”! Forse perché il ragazzo ha tentato di rubargli (si trattava di una prova di coraggio imposta da una gang asiatica) la preziosa memoria identitaria dell’auto in garage.
Lentamente, però, Walt scopre di avere più affinità e affetti da condividere con i vicini dagli occhi a mandorla che con i propri parenti. Thao, adolescente introverso, comprende di poter attingere al patrimonio culturale del burbero americano:
Il ragazzino Among erediterà il macchinone, ma non solo. Erediterà anche la sua identità perché, come scrive il celebre filosofo inglese del ‘600 Thomas Hobbes è il corretto uso della nostra intelligenza a fare la differenza, a renderci esseri umani. L’alternativa è la ferocia, l’inciviltà e lo scontro:
È vero che certe creature viventi, come le api e le formiche, vivono in società fra loro, e per questo sono da Aristotele annoverate fra le creature politiche (sociali), e tuttavia non hanno altra guida che quella del loro particolare giudizio o desiderio, non hanno la parola con la quale ognuna di esse possa indicare a un’altra ciò che ritiene di utilità comune per loro; di conseguenza qualcuno forse desidererà sapere perché l’umanità non possa fare allo stesso modo.
Al che io rispondo:
- In primo luogo gli uomini sono in continua competizione per l’onore e la dignità, cose che quelle creature non conoscono nemmeno, e di conseguenza fra loro sorgono per questa ragione invidia e odio e infine guerre: fra quelle creature invece niente di tutto questo;
- In secondo luogo fra quelle creature il bene comune non differisce da quello privato, per cui essendo esse per natura spinte a cercare il loro bene privato procurano per ciò stesso il bene di tutti. Ma l’uomo la cui gioia consiste nel confrontarsi con gli altri uomini, non può apprezzare se non ciò che lo distingue dagli altri;
- In terzo luogo queste creature non avendo come gli uomini l’uso della ragione non vedono e non pensano di trovare errori nell’amministrazione delle loro faccende comuni; fra gli uomini invece ce ne sono alcuni che si ritengono piú saggi, piú abili a governare le cose pubbliche, in confronto con gli altri, e allora cercano di riformare e di innovare, ora in un modo, ora in un altro, e cosí producono confusione e guerra civile;
- In quarto luogo queste creature sebbene abbiano un certo uso della voce in modo da riuscire a comunicarsi reciprocamente i loro desideri e le loro affezioni, tuttavia mancano dell’arte della parola, con la quale alcuni uomini rappresentano agli altri ciò che è bene sotto l’apparenza del male e ciò che è male sotto l’apparenza del bene, e aumentano o riducono l’apparente grandezza del bene e del male, provocando scontento fra gli uomini e turbando la loro pace e la loro gioia;
- In quinto luogo le creature irragionevoli non fanno distinzione fra ingiuria e danno, e di conseguenza quando stanno a loro agio non si sentono mai offese dalle creature loro compagne; invece l’uomo è piú turbolento quando sta piú a suo agio, perché è proprio allora che egli ama di fare sfoggio della sua saggezza, e di controllare le azioni di coloro che governano lo stato;
- Infine l’accordo che si produce fra quelle creature è naturale mentre quello degli uomini è solo per convenzione, cioè artificiale; per questo non fa meraviglia che qui si richieda qualche altra cosa, oltre al patto convenuto, per rendere l’accordo costante e duraturo, cioè un comune potere capace di tenere gli uomini in soggezione e di dirigere le loro azioni verso il bene comune.
Thomas Hobbes “IL LEVIATANO II”, cap. XVII