Le Parole dell’amore
Il filosofo sofista Gorgia, nell’Atene del V sec. a.C. riassunse le sue teorie nihiliste nella celebre frase “Nulla esiste; ma anche se qualcosa esistesse non sarebbe conoscibile; ma se questo qualcosa fosse conoscibile allora non avremmo le Parole per esprimerlo.”
Le Parole, il linguaggio verbale, l’espressione vocale, sono fondamentali.
Nel suo celebre romanzo “Il nome della rosa” Umberto Eco riportava questa celebre frase di un monaco del XII sec: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” che tradotto dal latino medievale può essere così riportato:
“DELLA ROSA, PRIMA DI TUTTO, ABBIAMO IL NOME, MA, ALLA FINE, CI RIMANE SOLO QUELLO”.
Come dire: se non si hanno le parole si corre il rischio di non accedere mai al TUTTO, all’ESSERE, direbbe il filosofo Parmenide, le parole conducono solo alla varietà inestricabile e disorientante delle opinioni.
Senza le parole siamo nudi, impotenti e soli. In una canzone cantata e recitata dalla grandissima Mina insieme all’attore Alberto Lupo nel 1972 si coglie tutta l’inconsistenza di parole che non toccano l’anima e che, inesorabilmente, si riducono a niente:
Platone nella sua opera sul valore del linguaggio verbale “Cratilo” scriveva: “Il discorso esprime il Tutto, Si gira e si muove sempre, ed è duplice: Vero o falso”. Quindi, secondo il grande pensatore ateniese, le parole non solo hanno un peso determinante per l’esito della nostra vita ma ci consentono (o ci impediscono) di accedere alla Verità.
Nel primo incontro del lab i filosofi avevano individuato ben 17 aspetti differenti dell’amore, non risulta quindi facile individuare quali siano le parole corrette e pesanti di questa dimensione umana.
Con le voci dei membri del lab leggiamo alcuni testi. Il primo è del 1929, di Antonia Pozzi, che così descrive il rapporto con la nudità del proprio corpo:
Guardami: sono nuda. Dall’inquieto
languore della mia capigliatura
alla tensione snella del mio piede,
io sono tutta una magrezza acerba
inguainata in un color avorio.
Guarda: pallida è la carne mia.
Si direbbe che il sangue non vi scorra.
Rosso non ne traspare. Solo un languido
palpito azzurrino sfuma in mezzo al petto.
Vedi come incavato ho il ventre. Incerta
è la curva dei fianchi, ma i ginocchi
e le caviglie e tutte le giunture,
ho scarne e salde come un puro sangue.
Oggi, m’inarco nuda, nel nitore
Del bagno bianco e m’inarcherò nuda
domani sopra un letto, se qualcuno
mi prenderà. E un giorno nuda, sola,
stesa supina sotto troppa terra,
starò, quando la morte avrà chiamato.
Si tratta indubbiamente di un amore molto sensuale e voluttuoso a cui risponde il poeta friulano David Maria Turoldo con una ode di cui ci vengono proposte due strofe:
Ora invece la terra
si fa sempre più orrenda
e inospitale:
il tempo è malato
i fanciulli non giocano più
le ragazze non hanno più occhi
che splendono a sera.
Tempo è di tornare poveri
per ritrovare il sapore del pane
per reggere alla luce del sole
per varcare sereni la notte
e cantare la sete della cerva.
È amore sacro, quello di Turoldo, è la sete del divino che, se esaudita, consente di reggere la luce del sole (Dio) e di varcare sereni le porte della notte (la morte).
Ma solo due grandi poeti come Antonia Pozzi e David Turoldo sanno ricorrere a parole d’amore così efficaci?
Paola, ragazza di quinta del lab, legge una sua piccola poesia che contiene, anch’essa, un riferimento prezioso all’amore e che è anche una porta aperta alla nostra libera interpretazione:
L’ho incontrato sulla strada di catrame dell’odio.
Più che un muro era un sassolino, che diceva
“cosa stai facendo?”
L’ho incontrato sul ghiaione dell’amore.
Più che spazio fresco era un piccolo fiore, che diceva
“è la tua strada?”
L’ho incontrato sulla via disconnessa dell’indecisione
Più che un cartello era un cippo, che chiedeva
“sei sicura?”
L’ho incontrato alla fine e all’inizio del mio mondo
In realtà non ricordo di questo,
ma la consapevolezza della sua guida
mi accompagna
ed è insita in me come
una tarma nel legno.
Concludiamo il nostro percorso con i versi del poeta spagnolo Federico Garcia Lorca e un suo testo del 1919:
Alba
Il mio cuore oppresso
con l’alba avverte
il dolore del suo amore e il sogno delle lontananze.
La luce dell’aurora porta
rimpianti a non finire
e tristezza senza occhi
del midollo dell’anima.
Il sepolcro della notte
distende il nero velo
per nascondere col giorno
l’immensa sommità stellata.
Che farò in questi campi
cogliendo nidi e rami,
circondato dall’aurora
e con un’anima carica di notte!
Che farò se con le chiare luci
i tuoi occhi sono morti
e la mia carne non sentirà
il calore dei tuoi sguardi!
Perché per sempre ti ho perduta
in quella chiara sera?
Oggi il mio petto è arido
come una stella spenta
Dopo aver ascoltato le parole dell’amore attraverso la voce dei poeti ci chiediamo se solo loro abbiano la possibilità di affacciarsi sul Tutto. Parte il dibattito.
La prima disputa riguarda la precedenza che i fatti, le cose concrete, hanno sulle parole. Dire ha un valore, fare ne ha di più. Se così stessero le cose tutta l’impalcatura delle parole si risolverebbe in chiacchiere e le chiacchiere alzano solo polvere sul niente.
Ma c’è una differenza abissale tra le parole e le chiacchiere. Poiché le parole dell’amore non possono essere vuoti canti di adulazione appiccicosa. L’amore è conoscersi, crescere e le parole sono indispensabili per conoscere e per conoscersi. Devono essere semplici ed efficaci, spesso connesse alle immagini. Le parole sono pietre, scriveva lo scrittore Carlo Levi, pesano e fanno male e spesso confinano nel silenzio, che non è vuoto, ma attesa e spazio, l’unica forma di rapporto, in cui le parole smettono di suonare perché, comunque, sono presenti:
Il filosofo tedesco Martin Heidegger scriveva che solo i poeti hanno la possibilità seria di affacciarsi sull’abisso (abgrund in tedesco) dell’Essere. L’amore ha questa prerogativa, esprimersi attraverso la voce dei poeti. E chi sono i poeti?