DE’ REMI FACEMMO ALI AL FOLLE VOLO

Itaca è ora davanti a noi. Così piccola e pietrosa, schiacciata tra le due grandi isole ionie di Lefkada e Cefalonia. Ma ne è valsa veramente la pena? Tanta fatica e vent’anni per approdare, poi, su questo scoglio? Telemaco, all’epoca infante, è diventato un uomo e per Ulisse è quasi un estraneo, Penelope, invece, ha custodito per tanto tempo il tesoro della famiglia, la casa, dall’assalto quotidiano degli approfittatori e, forse, è lei ad aver affrontato il viaggio più duro, quel fare e disfare la tela ogni giorno che le ha consentito di restare se stessa mentre il suo consorte non conosce più la propria identità, e deve camuffarsi per girare in casa propria. Quando finisce veramente un viaggio? Seguiamo le riflessioni tratte dal romanzo autobiografico dell’ungherese Imre Kertész, premio nobel per la letteratura, e poi tradotto in un film, nel 2005, dal titolo “Senza destino” il quale, liceale ebreo sedicenne a Budapest, viene catturato nel 1944, durante il tragitto che lo portava a scuola, e condotto al campo di Auschwitz. Imre (Giorgio) dopo indicibili sofferenze e crudeltà, sopravvive, e riesce a ritornare nella sua città, vorrebbe raccontare quello che ha vissuto, vorrebbe continuare il suo viaggio, i viaggi, infatti, non sono solo delle belle gite fuoriporta; ma per quale ragione riprendere il cammino? Perché conoscere ancora? Perché andare avanti dopo tanto orrore? “Si accetta ogni ragione pur di poter vivere” pensa tra sé il ragazzo aggirandosi tra le macerie post belliche della sua città e  “mi sono guardato attorno, nella piazza che si arrendeva al tramonto, umida di pioggia e al tempo stesso piena di mille speranze e ho subito sentito che dentro di me stava crescendo la disponibilità a proseguire una vita non proseguibile”.

La vita prosegue, deve proseguire, come il viaggio di Ulisse, che non può finire sulla Petrosa Itaca. Ulisse riparte, invecchiato, ma non domo, con il suo piccolo “legno” verso il limite invalicabile rappresentato dallo stretto di Gibilterra, le famose colonne d’Ercole, oltre le quali si estendeva l’ignoto. Dante Alighieri, nel XXVI canto dell’Inferno, trasforma l’eroe nel campione della ricerca filosofica, “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”, una ricerca che non ha mai fine, come ci spiega il grande attore Roberto Benigni. È un andare avanti che trasforma i duri e faticosi remi del ragionare cercando il senso, in ali potenti che consentono all’uomo di proseguire il folle volo oltre le colonne d’Ercole di ogni esistenza. Il viaggio non finisce mai e Dante ci ricorda che “volta nostra poppa nel mattino, de’ remi facemmo ali al folle volo”.

Il laboratorio, sollecitato anche dall’esegesi di Benigni si pone alcune domande fondamentali: quali sono le nostre personali colonne d’Ercole da oltrepassare? Su quali remi confidare per sollevarsi in volo? I nostri limiti spesso ci frenano ma le risorse della nostra intelligenza ci fanno volare verso mete imprevedibili, verso patrie e case inattese, mai stanchi, mai arrivati.

 

DAL CANTO XXVI dell’Inferno di Dante Alighieri

Io e ‘ compagni eravam vecchi e tardi6733900
quando venimmo a quella foce stretta
dov’ Ercule segnò li suoi riguardi

acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.

“O frati”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.

Li miei compagni fec’ io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.

Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ‘l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’ altrui piacque,

infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso».

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