RESTA
Nella celebre opera di C.S.Lewis “Alice nel paese delle meraviglie” si assiste ad una struggente scena finale, l’addio tra Alice e il cappellaio matto, lo riviviamo attraverso le splendide immagini del film del regista Tim Burton:
Ogni amore impatta con il distacco e, di conseguenza, con il dolore. “Potrei restare” dichiara Alice al cappellaio matto, ma ci sono cose che devo fare, domande a cui dare risposta, per questo devo andare, “ma ricorderò”, dichiara la ragazza prima di bere la pozione che la riporterà nel mondo ragionevole dei “normali”.
Restare e ricordare hanno a che fare con l’amore quand’esso, inevitabilmente, incontra il dolore e poi, la fine. Lo stesso C.S.Lewis descrisse questo travaglio inevitabile, riflettendo sulla morte dell’amatissima moglie Helen, nelle sue pagine pubblicate col titolo “Diario di un dolore”.
Leggiamo alcune pagine da questa operetta in cui possiamo scorgere forse una delle prove più dure a cui l’amore viene sottoposto:
“Grazie a Dio, il ricordo di lei è ancora troppo forte (lo sarà sempre?) per permettermi di farla franca. […]
I pochi anni che io ed H. abbiamo passato insieme sono stati un vero banchetto d’amore; l’amore in tutte le sue modulazioni: solenne e festoso, romantico e realistico, a volte clamoroso come un temporale, a volte dimesso e accogliente come infilarsi le pantofole.
Ogni infelicità è in parte, per così dire, l’ombra o il riflesso di se stessa: non è soltanto il proprio soffrire, ma è anche il dover pensare continuamente al proprio soffrire. Io non solo vivo ogni interminabile giorno nel dolore per la sua morte, ma lo vivo pensando che vivo ogni giorno nel dolore. […]
È difficile non irritarsi con quelli che dicono: «La morte non esiste», oppure: «La morte non ha importanza». La morte esiste. E tutto ciò che esiste ha importanza. […]
Se H. “non è”, allora non è mai stata, e io ho scambiato per una persona una nube di atomi. La gente non esiste, non è mai esistita. La morte non fa che rivelare il vuoto che c’era da sempre. I cosiddetti vivi sono semplicemente quelli che non sono stati ancora smascherati. Tutti in bancarotta, anche se per alcuni non ancora dichiarata. […]
Se il mio castello è crollato al primo colpo, è perché era un castello di carte. La fede che «aveva messo in conto queste cose» non era fede ma fantasia. Metterle in conto non era vera partecipazione umana. Se mi fosse veramente importato, come credevo, dei dolori del mondo, non sarei poi stato travolto dal mio. Era una fede immaginaria che si trastullava con gettoni innocui con sopra scritto “malattia”, “sofferenza”, “morte”, “solitudine”. Credevo di avere fiducia nella corda, finché è venuto il momento di sapere se essa mi avrebbe retto. Ora che deve reggermi, scopro che la mia fiducia non esiste.”
Le parole di Lewis esprimono tutta la difficoltà insita nell’affrontare la prova del distacco, del vuoto, come lo descrive lui, anche quando si vive all’interno di una fede certa e luminosa. Il dolore devasta l’amore e lo mette alla prova.
Dal film del 2001, “La stanza del figlio” del regista Nanni Moretti, vincitore del festival di Cannes, vediamo la drammatica e struggente scena dell’impatto con la morte dell’amatissimo figlio da parte di due moderni e laici genitori. Bravi, sensibilmente a posto, molto aperti alle esigenze del figlio ma totalmente incapaci di affrontare un distacco così doloroso e incurabile.
Lo scottante tema della morte connesso all’amore venne trattato, nel 2013, da una nostra ex alunna ben nota ai ragazzi del lab. È lei infatti l’ispiratrice di molte delle tematiche trattate sia per quello che riguarda gli argomenti che le provocazioni. A proposito di un repentino addio tra due amanti scrisse una poesia talmente bella che venne poi anche pubblicata in una sua raccolta. Proprio per il fatto di essere stata divulgata la pubblichiamo anche noi pur con il rispetto che deriva dal pudore verso un sentimento così forte e radicato. La lirica descrive un amore delicato, talmente fragile da essere paragonato allo splendore di un papavero che però cresce nel posto sbagliato: al gelo del polo. Per questo soccombe, oppure no.
Un papavero al polo
Bella
Minuta
stavi in questo mondo
come un papavero al polo.
Impagabile e terrificante maschera,
ridevi
gioivi,
sgridavi il mio uomo per scherzo.
Un giorno
di neve
fingesti di andare al lavoro.
Serena,
partisti
appesa a una trave nascosta.
A casa
tua figlia,
il tuo amore
(quell’orso
che sembra
mio padre)
ti attesero
seppero
piansero.
È facile
adesso
per me
parlare di te
che sei andata,
coperta di terra
in un giorno di sole.
Ti penso
e ti vedo
serena:
sorridi e profumi
di torta al limone.
Dopo queste provocazioni sono i ragazzi del laboratorio a prendere la parola e a confrontarsi con questo aspetto esiziale dell’amore. Il prof raccoglie le loro impressioni, alcune condivisibili, altre più scomode:
“Quando un rapporto d’amore incrocia il sentiero della verità allora è autentico. In questo caso diviene anche indimenticabile. Se l’amore è la forza e l’energia della vita allora è anche la causa del movimento emotivo più intenso, quello causato dalla morte. Ha dimensioni così vaste da divenire l’essenza stessa della religione.
Ricordare significa pensare che non è la fine, significa perpetuare la vita. Non a caso per Platone il ricordo equivale alla conoscenza. Ricordare è antidoto al dolore. La perdita distrugge, ci mangia interiormente mentre il ricordo rimane, i pensieri restano come una bottiglia che si scuote: il liquido sembra trasparente e vuoto ma basta agitarlo un po’ ed esso svela la densità del suo contenuto.
Se l’amore è forza vitale che spinge è passione. E se è passione allora farà patire perché, come bambini, è una totalità che tutto ingloba.
È vero, l’amore vince la morte e se amassimo veramente non soffriremmo!”